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Google viola il Codice della Privacy ma non deve risarcire la moglie adulterina scoperta dal marito grazie a Street View

Google non deve risarcire la moglie adulterina costretta a confessare l’esistenza di un amante, cedendo alle pressioni del marito, che aveva visto la sua auto in una via “insolita” grazie a Google Maps. L’auto era infatti stata ripresa, senza targa oscurata con la funzione Street View, in assenza di qualunque avvertenza che su quella strada si stavano facendo delle riprese fotografiche. La donna aveva dunque chiamato in giudizio Google Italy, al quale attribuiva la fine del suo matrimonio.

La funzione di Street View, Google dovrebbe oscurare le targhe delle auto, ma nel caso di specie l'azienda Usa ha violato la privacy

Ma per i giudici manca la prova che l’unione sia naufragata per colpa di Google. La Cassazione, con la sentenza 27224/2022 bolla come inammissibile il ricorso della signora.

Nonostante l’azienda americana avesse effettivamente violato il Codice della Privacy omettendo di oscurare la targa dell’auto come avrebbe dovuto fare, si deve comunque dimostrare che il marito “si fosse accorto del parcheggio sospetto consultando Google Maps e che da tale scoperta fossero derivate poi le conseguenze descritte dalla ricorrente“.

Questa però non è l’unica motivazione: i giudici sottolineano che la donna non doveva chiamare in causa Google Italy, ma Google LLC con sede negli Stati Uniti, che è il gestore del servizio Google Maps. Un errore che può essere considerato banale, ma che in ogni caso non cancella la mancanza di nesso causale in grado di far sfumare il diritto al risarcimento.

I giudici però hanno considerato inutile chiamare in causa il colosso del web perchè, malgrado avesse violato la normativa sulla protezione dei dati personali italiana, per quanto riguarda l’informazione preventiva al pubblico sulle riprese fotografiche e sull’oscuramento dei dati acquisiti, mancava la prova che il suo comportamento fosse alla base del tracollo sentimentale.

Come si legge nella sentenza, serviva infatti una “prova diabolica” per dimostrare che il marito “si fosse accorto del parcheggio sospetto consultando Google maps e che da tale scoperta fossero derivate poi le conseguenze descritte dalla ricorrente“. In assenza della prova di un nesso tra le violazioni dell’azienda statunitense e la scoperta degli “altarini“, sfuma così il diritto al risarcimento.

Articolo ripreso da FederPrivacy