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Post di Facebook: quando diventa Diffamazione Aggravata

Commette il reato di diffamazione aggravata, ex articolo 595 comma 3 cod. pen., la persona che, attraverso la pubblicazione di un post su Facebook, accusa l’ex partner, in maniera non del tutto corrispondente alla realtà, di far mancare al proprio figlio i mezzi di sussistenza, facendolo così apparire a un numero indeterminato di potenziali utenti del social network come una persona incurante della vita del minore. Ad affermarlo è il Tribunale di Campobasso con la sentenza n. 574/2019.

La vicenda – La decisione si riferisce a un post pubblicato sulla propria bacheca Facebook da una donna che offendeva il suo ex compagno, accusandolo sostanzialmente di trascurare il figlio avuto da lei e di sperperare i propri soldi.

A ciò aggiungeva altri commenti in cui, in sostanza, paragonava all’ex partner il suo nuovo compagno, elogiando quest’ultimo perché si prendeva cura di un figlio non suo. Il post veniva condiviso da molti utenti e riceveva tanti commenti, al punto da spingere il destinatario delle accuse a sporgere querela per diffamazione aggravata. In particolare, sotto tiro finiva l’espressione “non passi un euro a tuo figlio”, che secondo il padre del minore ledeva la sua reputazione.

Dinanzi al giudice la donna riteneva di avere sostanzialmente affermato la verità, mentre l’uomo riconosceva di aver saltato il pagamento di sole cinque mensilità dell’assegno di mantenimento e che aveva addirittura chiesto al Tribunale di modificare le condizioni di affidamento del minore, al fine di ottenerne l’affidamento esclusivo.

La decisione – Il Tribunale ritiene l’affermazione contenuta nel post effettivamente diffamatoria, in quanto non totalmente veritiera e rappresentativa della realtà. Il contenuto delle frasi pubblicate e visibili alla moltitudine degli utenti del web tendeva, infatti, a fornire una figura del padre come assente della vita del figlio e incurante dei suoi bisogni, con il suo ruolo che era di fatto sostituito dal nuovo compagno dalla madre del minore.

Per il giudice si tratta di affermazioni non fedeli alla realtà dei fatti che, pubblicati su una piattaforma pubblica come quella di Facebook, hanno creato un pregiudizio alla reputazione del querelante, «minandone la considerazione sociale, con una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone».

Fonte: Il Sole 24 Ore del 26 agosto 2020

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