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Sanzione per Google per mancato rispetto del diritto all’oblio di alcuni interessati

Una pesante sanzione da 10 milioni di euro è stata inflitta a Google da parte dell’autorità per la protezione dei dati personali spagnola (AEPD), che ha contestato al colosso di Mountain View due infrazioni “gravissime” per aver “ceduto illecitamente dati a terzi “e ”ostacolato il diritto all’oblio dei cittadini”. A renderlo noto è lo stesso garante con un comunicato stampa diramato lo scorso 18 maggio.

Violazione del diritto all'oblio da parte di Google: scatta la maxi sanzione privacyLa sanzione è stata originata da due denunce pervenute all’autorità iberica nel periodo tra settembre e ottobre del 2018, nelle quali cui Google veniva accusato di aver raccolto i dati delle persone che compilavano il modulo online per chiedere la non indicizzazione dei contenuti che li riguardano, inviandoli a un database del progetto Lumen dell’Università di Harvard, dove poi venivano diffusi online, ulteriore trattamento di dati personali che peraltro non era neppure menzionato nell’informativa privacy di Google.

In pratica, anziché rispettare la volontà degli utenti che chiedevano che i loro dati cessassero di essere pubblici, la procedura di Google comportava che le richieste di rimozione dei contenuti dal web fossero pubblicate rimanendo disponibili su Internet, e vanificando così la volontà degli interessati di esercitare il diritto ad essere ”dimenticati” in violazione all’art.17 del Gdpr.

Oltre alla maxi sanzione amministrativa comminata con il Provvedimento PS/00140/2020, il garante per la privacy spagnolo ha ordinato alla società americana di modificare la procedura attraverso la quale i cittadini possono esercitare il diritto all’oblio, riconosciuto dal Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, e anche di cancellare tutti i dati personali che sono stati oggetto di richieste di esercizio di diritto all’oblio comunicate al Project Lumen, invitando quest’ultimo a cessare l’utilizzo di tali dati personali, cancellandoli dai propri archivi.

Articolo ripreso da: Federprivacy.org